L’interpretazione dei tarocchi non può essere definita una scienza esatta, non si possono porre dei limiti all’immaginazione individuale nell’interpretazione delle carte. Ognuno, in base alla sua esperienza personale di “amicizia” con quella carta o con quel seme, maturerà la sua visione.
Un’osservazione che spesso emerge, da parte di chi ha letto Tarocchi: dal caos al cosmos, riguarda la corrispondenza del seme di Spade con l’elemento Fuoco. In effetti gli studiosi e le studiose di Tarocchi in genere attribuiscono alle Spade la corrispondenza con l’elemento Aria. Nel mio lavoro è stata fatta una scelta diversa: perché?
Associo il seme di Spade al momento della Storia in cui gli esseri umani per poter mangiare dovevano cacciare; quindi, per sopravvivere dovevano uccidere degli animali. Mors tua vita mea, insomma. Un mondo duro, difficile per le asperità del quotidiano, che fatichiamo a immaginarci. Il fuoco è l’elemento che brucia, che ferisce, e che allo stesso tempo cauterizza le ferite: il fuoco mette a nudo, ci spinge a lottare per la nostra sopravvivenza, ci aiuta a evolvere perché finalmente impariamo a “cuocere” le difficoltà che incontriamo. Il fuoco è un’energia che dobbiamo imparare a domare, per farcela tornare utile. È così anche per il pensiero, è così anche per le complicazioni quotidiane. Tutti i guai, i problemi, sono lì per insegnarci a domare le energie primordiali, necessarie alla sopravvivenza.
Una serie di carte che parla di egoismo, sopraffazione, sofferenza: a parte l’Asso.
L’Asso di Spade rappresenta la consapevolezza pura e limpida come la luce che attraversa il cristallo di rocca. È infatti quello il tesoro da trovare, in mezzo a tutte le tumultuose vicende che le carte di Spade ci suggeriscono.
“Ieri pomeriggio il tempo si era fatto nebbioso e freddo. Avrei quasi preferito starmene nel mio studio presso il focolare, che avventurarmi per la landa e il fango alla volta di Wuthering Heights. Ma, risalito dopo pranzo con tale proposito […], appena varcata la soglia scorso lì dentro una ragazza che, inginocchiata davanti al fuoco e circondata da scope e secchi di carbone, estingueva le fiamme con mucchi di cenere, sollevando un polverone infernale. Tale vista mi fece ritornare immediatamente sui miei passi e, preso il cappello, uscii. Dopo quattro miglia arrivai al cancello del giardino di Heathcliff che già cadevano dei fiocchi di neve, appena in tempo per sfuggire alla bufera.
Alla sommità della collina la terra nericcia era indurita dal gelo, e il freddo mi faceva rabbrividire. Non riuscendo a togliere la catena, spiccai un salto al di là del cancello e, fatto di corsa il sentiero lastricato, lungo il quale crescevano miseri cespugli di uva spina, battei alla porta fino ad averne le dita indolenzite, ma invano: soltanto i cani ulularono in risposta”.